" Il mio scopo è mettere il lettore in uno stato mentale così elastico da farlo sollevare sulla punta dei piedi. "
Friedrich W. Nietzsche

sabato 16 febbraio 2013

L. Feuerbach: l'uomo è Dio e la misura di tutte le cose

Grande critico della religione cristiana e della figura di Dio, ha sempre affermato, nelle sue opere, che l'uomo deve essere uomo; non deve spersonalizzarsi a favore di un entità inesistente, sottomettendosi a Lui, necessario soltanto a colmare il suo essere limitato e limitante: così non fa altro che chiudersi nella più ottusa fede religiosa, che dona erroneamente significati divini alle cose che accadono, sminuendo e condannando continuamente l'uomo, aspirante alla completezza irraggiungibile e all'eliminazione di tutte le proprie colpe e di tutti i suoi difetti incancellabili.

L'uomo avverte l'infinito. Un infinito che non deriva dalla divinità, ma dalla sua anima, dal suo essere umano. Apre, Feuerbach, con questa riflessione, una delle sue opere più celebri, L'essenza del Cristianesimo (1841). Proprio qui afferma:

Pensi tu l’infinito? Ebbene tu pensi ed affermi l’infinità della potenza del pensiero. Senti tu l’infinito? Tu senti ed affermi l’infinità della potenza del sentimento.

Niente proviene quindi da Dio; niente è al di fuori dell'uomo, anche se quest'ultimo non riesce con le sue sole forze a reperire alle sue mancanze; ecco perché aliena, proietta nell'immagine di Dio, se stesso, rendendosi perfetto: Dio diventa così amore autentico, essere onnipresente, onnisciente, capace di governare ogni cosa, mai sofferente né angosciato, invincibile e potente: 'L’uomo – questo è il mistero della religione – proietta il proprio essere fuori di sé e poi si fa oggetto di questo essere metamorfosato in soggetto, in persona.'

Dio, perciò, secondo il filosofo, non esiste, o meglio esiste solamente nella spiccata fantasia dell'uomo: è un essere metafisico e fantascientifico, capace di dare senso fittizio all'esistenza dell'uomo, di tutto il creato e anche di se stesso. Soluzione logica per stroncare questa alienazione espropriante è quella di abbandonare la religione cristiana per abbracciare l'ateismo più radicale e radicalizzato: l'uomo, così, diventa la misura di tutte le cose.

"gossip filosofico" -> Kierkegaard

- Kierkegaard disse che Hegel era il professore che aveva capito tutto fuorché se stesso.

- Quando venne a sapere che, a un anno dalla pubblicazione, il suo scritto "Briciole di filosofia" aveva venduto soltanto 17 copie, Kierkegaard si sentì così male che rimase a letto per un'intera settimana!

- Recatosi a Berlino per sentire le lezioni di Schelling, Kierkegaard ne rimase deluso; a tal proposito, avrebbe scritto anni dopo: "Quel che i filosofi dicono della realtà è spesso deludente, come quando da un rigattiere si legge su un'insegna la scritta 'Qui si stira'. Se si venisse a far stirare il proprio abito, si resterebbe ingannati, poiché l'insegna è semplicemente in vendita".

- Per tutta la vita, Kierkegaard sostenne di essere tormentato da una “spina nelle carni” che non gli dava pace.

- Dal 1832 al 1834 Kierkegaard ebbe tre anni a dir poco infernali: nel 1832 perse una sorella; nel 1833 morì un fratello; nel 1834 perse la madre.

- Il 2 Ottobre 1855, colto da un collasso per strada, Kierkegaard morì in ospedale.

- Quando Kierkegaard ruppe il fidanzamento con Regina Olsen, questa, senza troppo indugiare, si sposò con Schlegel, la cui donna, a sua volta, se n'era andata da Schelling...

venerdì 15 febbraio 2013

Kierkegaard

Le vicende biografiche e le opere

Soren Kierkegaard nasce in Danimarca, a Copenhagen, il 5 maggio 1813. Educato dal padre nel clima di una severa religiosità, si iscrive alla facoltà di teologia di Copenhagen, presso la quale dominava l'ispirazione hegeliana. Nel 1840, circa dieci anni dopo il suo ingresso in università, si laurea con una dissertazione Sul concetto dell'ironia con particolare riguardo a Socrate, che pubblica l'anno seguente. Nel 1841-1842 va a Berlino e ascolta le lezioni di Schelling. Dapprima entusiasta Kierkegaard è presto deluso dalla filosofia di Schelling. Dopo di allora, vive a Copenhagen grazie a un capitale lasciatogli dal padre, assorto nella composizione dei suoi libri. Muore 1'11 novembre 1855.
Nella vita di K. giocano un ruolo decisivo il rapporto con il padre e quello con la fidanzata Regina Olsen. La relazione con il padre è conflittuale: K. aveva scoperto di essere stato concepito prima del matrimonio dei suoi genitori e questo lo aveva molto ferito dato che il padre era un affermato pastore protestante. Tale incoerenza del padre produsse in K. una grandissima sofferenza. Dal padre Kierkegaard eredita una religiosità severa e dalle disgrazie che egli subisce ( il papà pur avendo fatto fortuna dal punto di vista economico-sociale, vede morire la moglie e 5 dei suoi 7 figli) K. trae l’idea che una sorta di maledizione gravasse sulla sua famiglia, un castigo di Dio che egli subisce come una terribile minaccia.
Nel Diario K. parla di una scheggia nelle carni che egli è destinato a portare con sé fino alla morte, i biografi non sono stati in grado di definire cosa fosse ma quello che si evince è il carattere ossessionate della cosa, un senso di minaccia paralizzante che lo accompagna per tutta la vita. Problematico è anche il rapporto con Regina Olsen che egli lascia alle soglie del matrimonio perché SCEGLIE la vita religiosa (ma non come pastore) alla vita etica come marito. Pur essendo laureato in teologia non intraprende la carriera di pastore alla quale la sua laurea lo abilitava. Inizia a scrivere ma dichiara di porsi in un rapporto poetico con la scrittura cioè in un rapporto di distacco e lontananza. Scrive molti libri utilizzando pseudonimi diversi proprio per sottolineare il distacco tra se stesso e le forme di vita che descriveva. Le opere principali e più conosciute sono Aut - aut (1843) e Timore e tremore (1843).

L’esistenza come possibilità e fede

La categoria fondamentale che caratterizza il pensiero di K. è quella della esistenza. Kierkegaard è considerato il primo esponente dell’esistenzialismo, una corrente filosofica che ebbe grande sviluppo nella prima metà del XX secolo. L’esistenzialismo concepisce la filosofia come analisi dell’esistenza, intesa quale dimensione esclusiva dell’esperienza umana e, quindi, l’unica che può essere oggetto di riflessione filosofica.
L’esistenza è lo specifico modo di essere dell’uomo nel mondo. Quindi una prima caratteristica dle pensiero di K. è cercare di ricondurre la comprensione dell’ intera esistenza dell’uomo alla categoria della possibilità mettendo in luce l’aspetto negativo e paralizzante della possibilità come tale.
L’esistenza umana si configura come un insieme di possibilità che pongono l’uomo, ogni singolo uomo, di fronte a una scelta. Tutta l’esistenza umana si risolve nello scegliere fra diverse possibilità, che rappresentano le varie alternative verso cui l’uomo può dirigere la propria vita. Secondo Kierkegaard, il configurarsi della vita come una serie di possibilità non costituisce però una ricchezza dell’esperienza umana ma, al contrario, un’ evidente manifestazione della limitatezza del suo essere.
L’uomo infatti, di fronte alla scelta, prova un senso di angoscia in quanto non può sapere come le cose sarebbero andate se avesse scelto la possibilità che egli ha escluso. Egli sa che la possibilità da lui scelta può avere un esito positivo, ma anche un carattere decisamente negativo; può, in altre parole, condurre alla realizzazione di sé ma anche al proprio annientamento. D’altra parte, il risolvere positivamente una scelta non implica la salvezza poiché, immediatamente dopo, l’uomo dovrà affrontarne un’altra. L’esito negativo ha un potere di condizionamento nettamente superiore rispetto all’esito positivo: implica infatti l’assoluta sconfitta, il fallimento e, proprio per questo, pone il soggetto in una condizione paralizzante.
Secondo Kierkegaard esistere significa scegliere. Infatti, la scelta non è una semplice manifestazione della personalità, ma costituisce la personalità stessa, che sceglie vivendo o vive scegliendo. In altri termini, l’individuo non è quel che è, ma ciò che sceglie di essere. Tant’è vero che persino la rinuncia alla scelta è una scelta, sia pure un tipo di scelta per causa della quale l’uomo rinuncia a farsi valere come io. L’esistenza quindi si configura come una continua scelta e rivela la continua possibilità, per l’uomo, dell’annientamento.
Una seconda caratteristica del pensiero di K. è il suo sforzo di chiarire le possibilità fondamentali che si offrono all’uomo, gli stadi o i momenti della vita che costituiscono le alternative dell’esistenza, tra le quali l’uomo generalmente è portato a scegliere.
Una terza caratteristica del suo pensiero è il tema della fede. Soltanto nel cristianesimo egli vede un’ancora di salvezza: l’aiuto soprannaturale della fede viene visto come un modo per ridurre nell’uomo l’angoscia e la disperazione che costituiscono strutturalmente l’esistenza.

Gli stadi dell’esistenza

Kierkegaard configura tre stadi dell’esistenza che corrispondono ai tre possibili modi con cui l’individuo sceglie di caratterizzare la propria vita. 
I tre modelli di vita sono posti in una successione gerarchica, nel senso che il successivo rappresenta una scelta di maggiore consapevolezza rispetto al precedente. Queste scelte infatti sono antitetiche e irriducibili e non può esistere fra loro alcuna mediazione. Kierkegaard sceglie allora di indicare il passaggio dall’una all’altra con l’espressione aut-aut, a indicare come fra uno stadio dell’esistenza e un altro non vi sia una mediazione dialettica ma un salto netto, che configura due esempi di vita assolutamente differenti. Quindi che il «passaggio» da uno stadio ad un altro postula sempre una rottura o un «salto», accompagnato da un cambiamento radicale di mentalità.

Lo stadio estetico è la forma di vita in cui l’uomo «è immediatamente ciò che è», ossia il comportamento di colui che, rifiutando ogni vincolo o impegno continuato, cerca l’attimo fuggente della propria realizzazione, all’insegna della novità e dell’avventura. Infatti, l’esteta, che trova il suo simbolo più significativo nel Don Giovanni di Mozart ( o nel Faust di Goethe), si propone di fare della propria vita un’opera d’arte da cui sia bandita la monotonia e nella quale, viceversa, trionfino le emozioni inedite. Tuttavia, al di là della sua apparenza gioiosa e brillante, la vita estetica è destinata alla noia (in quanto il piacere tende a ripetersi e ad essere sempre uguale) e al fallimento esistenziale. Infatti, vivendo attimo per attimo ed evitando il peso di scelte impegnative (ossia scegliendo di non scegliere), l’esteta, secondo Kierkegaard, finisce per rinunciare ad una propria identità e per avvertire, con disperazione, il vuoto della propria esistenza senza centro e senza senso. L’esteta vorrebbe quindi una vita diversa che si prospetta come un’altra alternativa possibile. Ma per raggiungere questa alternativa bisogna attaccarsi alla disperazione, scegliere e darsi con tutto l’impegno per uscire dalla vita estetica e entrare nella vita etica attraverso un salto enorme, una rottura profonda.

Lo stadio etico è il momento in cui l’uomo, scegliendo di scegliere, ossia assumendo in pieno la responsabilità della propria libertà, si impegna in un compito, al quale rimane fedele. Infatti, a differenza della vita estetica, la quale tenta di evitare la «ripetizione» e cerca ad ogni istante il nuovo, la vita etica si fonda sulla continuità e sulla scelta «ripetuta» che l’individuo fa di se stesso e del proprio compito. Come la vita estetica è incarnata dal seduttore, la vita etica è incarnata dal marito. Il matrimonio è l’espressione tipica della vita etica. In altri termini, nella vita etica l’individuo si sottopone ad un modello «universale» di comportamento, che implica, al posto del desiderio, dell’«eccezionalità», la scelta della «normalità » La morale – scrive Kierkegaard – è propriamente il generale e, in quanto generale, è ciò che vale per tutti.
Tuttavia, pur collocandosi su di un piano più alto rispetto alla vita estetica, la vita etica è destinata anch’essa al fallimento. Infatti, l’uomo etico non può fare a meno di «pentirsi». Inoltre, nell’ambito della «generalità» della vita etica l’individuo non riesce a «trovare» veramente se stesso e la propria «singolarità» genuina. Da ciò il
bisogno di un’esperienza più profonda e coinvolgente grazie a cui l’individuo – vincendo l’angoscia e la disperazione - possa davvero realizzarsi come singolo e nelle sue aspettative migliori. Tale è la vita religiosa.

Lo stadio religioso, tra vita etica e vita religiosa c’è un abisso ancora più profondo di quello tra vita estetica e vita etica. K. chiarisce questa opposizione in Timore e tremore, raffigurando la vita religiosa nella persona di Abramo Vissuto fino a settant'anni nel rispetto della legge morale, Abramo riceve da Dio l'ordine di uccidere il figlio Isacco, infrangendo così la legge per la quale è vissuto. Il significato di tutto ciò sta nel fatto che il sacrificio di Isacco non è suggerito ad Abramo da una qualche esigenza morale ma da un comando divino che, anzi, contrasta con la legge morale e con gli affetti naturali. In altri termini, l'affermazione del principio religioso sospende interamente l'azione del principio morale. Tra i due principi non c'è possibilità di conciliazione o di sintesi. Optando per il principio religioso, l'uomo di fede sceglie di seguire i comandi divini
anche a costo di infrangere le norme morali e giungere così a una rottura totale con tutti gli altri uomini. Del resto, la fede non è un principio generale, ma un rapporto privato tra l'uomo e Dio, un rapporto assoluto con l'Assoluto. Da tutto ciò deriva il carattere incerto e rischioso della vita religiosa. Come può l’uomo sapere con sicurezza di essere l'eletto, colui al quale Dio ha affidato un compito talmente eccezionale da esigere e giustificare la sospensione dell'etica? L'uomo è posto di fronte a un bivio: credere o non credere. Se, da un lato, è il singolo uomo a dover scegliere, dall'altro ogni iniziativa umana è esclusa, perché Dio è tutto e da Lui deriva anche la fede. La vita religiosa è imprigionata nelle maglie di questa contraddizione inesplicabile, che, del resto, costituisce l'essenza stessa dell'esistenza umana. La condizione del fedele, quindi, non è una condizione di benessere e felicità ma, anzi, tende ad amplificare quegli elementi di incertezza che rendono l’esistenza dell’uomo precaria. Si deve infatti credere in un Dio che non si può conoscere, si spera di essere salvati da lui ma non si può fare nulla per ottenere questa salvezza, se non abbandonarsi completamente alla volontà di Dio; la fede è un’iniziativa personale, che nasce da una nostra scelta esistenziale ma, nello stesso tempo, può essere data solo da Dio. Kierkegaard chiama “malattia mortale” questo rinunciare al proprio io per affidarsi alla divinità; è il risultato della disperazione cui conduce l’impossibilità di una scelta e la decisione di sacrificare interamente se stessi. La fede è dunque un paradosso, in quanto vi affidiamo tutto il nostro essere per liberarci dall’angoscia dell’esistenza ma, nello stesso tempo, l’esperienza della fede è anch’essa un’esistenza che non risolve i nostri dubbi e verso la quale dobbiamo mostrare una totale rassegnazione e sottomissione. La fede è allora l’espressione ultima della condizione dell’uomo nel mondo in quanto ripresenta, su un piano più elevato, la situazione irrisolvibile dell’esistenza: la scelta. Nel contempo, però, la fede è l’unica soluzione da prendere rispetto a quella condizione, poiché la scelta religiosa è l’abbandono totale del mondo, l’affidarsi totalmente a un’assoluta potenza che è l’unica a poterci salvare.

L’angoscia

L’angoscia di cui parla Kierkegaard è il sentimento della possibilità, cioè quello stato d’animo esistenziale che sorge dinanzi alla “vertigine della libertà” e alle infinite possibilità negative che incombono sulla vita e sulla personalità dell’uomo. Infatti “nel possibile, tutto è possibile” anche e soprattutto il negativo. Per questo ogni possibilità favorevole è spesso annientata dall'infinito numero delle possibilità sfavorevoli.
È quindi l'infinità, o indeterminatezza delle possibilità a rendere l'angoscia insuperabile, e a farne la condizione fondamentale dell'uomo nel mondo. L’angoscia è diversa dalla paura che si prova al cospetto di una situazione determinata e ad un pericolo preciso. Essa è puro sentimento della possibilità, della libertà di potere, di ciò che non è ma può essere in futuro. Inoltre, essa è un sentimento tipicamente umano. Tant’è che viene provata solo da chi ha spirito: “più profonda è l’angoscia più grande e l’uomo”. Inoltre, se è vero che la povertà spirituale sottrae l'uomo all'angoscia, non bisogna dimenticare che l'uomo sottratto all'angoscia è schiavo delle circostanze che lo sospingono di qua e di là senza meta. L'angoscia è dunque la più gravosa e al tempo stesso la più necessaria tra le categorie umane. L’unico modo efficace per contrastare l’angoscia e i suoi tormenti non è l’accortezza umana, ma la fede religiosa in Colui al quale “tutto è possibile”.

La disperazione e la fede

Mentre l’angoscia si riferisce al rapporto dell’uomo con il mondo, la disperazione si riferisce al rapporto dell’uomo con se stesso, quindi riguarda la sua stessa interiorità, il suo io. L’uomo infatti può volere se stesso ma in questo modo sceglierebbe la propria insufficienza e finitezza e non sarebbe mai adeguato né avere pace; oppure può non volere essere se stesso ma annullando così il rapporto con sé si distruggerebbe, ricadendo nella disperazione. Nell’uno e nell’altro caso, ci si imbatte sempre nella disperazione, che è un’autentica malattia mortale, non perché conduca alla morte dell’io, ma perché è il vivere la morte dell’io, cioè è la negazione del tentativo umano di rendersi autosufficienti o di evadere da sé. Ma se ogni uomo è malato di disperazione, l’unica terapia efficace contro di essa è la fede, ossia quella condizione in cui l’io, pur orientandosi verso se stesso e pur volendo essere se stesso, non si illude sulla sua autosufficienza, ma riconosce la sua dipendenza da Colui che lo ha posto e che, solo, può garantire la sua realizzazione. L’uomo deve quindi «volere» la disperazione, poiché riconoscendosi in preda ad essa egli può volgersi alla ricerca di una salvezza. La disperazione di cui parla Kierkegaard non è la disperazione finita che discende dalla perdita di beni mondani (ad es. di una persona cara o di un patrimonio); ma la disperazione infinita che discende dalla propria insufficienza esistenziale. Infatti, se la prima costringe l’uomo a “rinchiudersi” in sè e nel finito, la seconda lo spinge ad uscire “fuori di sè” e ad aprirsi all’Assoluto. Di fronte all'instabilità radicale dell'esistenza costituita dalla possibilità, la fede si appella alla stabilità del principio di ogni possibilità, ovvero a Dio, cui tutto è possibile.

lunedì 17 dicembre 2012

Vivi nel tuo mondo, fatto di sogni e speranze, ma basta un niente perché tutto ciò in cui credevi e che ti circondava ti cada addosso. E quando questo succede ti senti perso, e un uomo perso è un uomo senza speranza. Esso è come un libro senza parole, senza pagine e senza copertina; come una farfalla senza ali.
Un uomo senza speranza è come un bosco senza sentiero, come una vita senza storia.
E' come uno scoglio senza il mare, arido e asciutto dentro.

Un uomo senza speranza è il buio.
E' una stanza senza luce, dove rimbombano urla, pianti, dolore. Dove sembra non esserci via d'uscita, la solitudine domina e la voglia di porre fine a tutto questo diventa irresistibile.
Un buio che annerisce l'anima e che toglie energia...
Eppure basterebbe così poco per uscirne... un piccolo fiammifero di calore umano.

giovedì 13 dicembre 2012

Umano, troppo umano.

Il tema principale di questa raccolta di aforismi è lo spirito libero. Libero è lo spirito quando pensa diversamente da quello che, secondo il suo sviluppo storico, l'ambiente, le opinioni dominanti del tempo, dovrebbe pensare. Egli è l'eccezione e non importa se gli spiriti schiavi lo rimprovereranno. Il concetto di libertà spirituale è però negativo: non è proprio degli spiriti liberi avere idee giuste, quanto piuttosto l'essersi sbarazzati di una tradizione; essi vogliono delle ragioni, mentre gli altri si accontenteranno della fede. Per quanto la prima edizione dell'opera sia dedicata a Voltaire, lo spirito che la anima è lontano dall'illuminismo: questo ha fiducia nella ragione, per Nietzsche invece tale fiducia è un mito sorto dalle esigenze di determinate situazioni storiche e di determinate necessità pratiche. La morale e la religione devono essere superate, poiché solo elevandosi sopra di esse è possibile comprenderle. L'arte è una finzione ipocrita e menzognera, da commedianti, la musica un veleno dello spirito. Storia, morale, religione, arte però devono essere sperimentate perché la vita diventi strumento del conoscere e sia possibile raggiungere la saggezza. Il Genio è un mistificatore, è il grande commediante che presenta l'apparenza sotto veste di realtà. Quest'ultima affermazione offese Wagner, che rispose con parole amare sulle «Bayreuther Blatter». Ma Wagner, che aveva ormai scritto il Parsifal, aveva assunto una posizione religiosa e mistica agli antipodi di quella nietzschiana.
Lo spirito libero non può trovarsi sulla terra che nella condizione di un viandante in perenne errare, non per raggiungere una meta, poiché questa non esiste, ma per tenere gli occhi bene aperti su tutto quello che gli si presenta nel mondo, e non può lasciare quindi che il suo cuore si leghi troppo salda mente a una cosa sola. Lo spirito libero sottopone ad una analisi i sentimenti morali e religiosi e spiega gli uni e gli altri senza bisogno di ricorrere alla cosa miracolosa degna di una omerica risata. Con questa impostazione Nietzsche abbandona definitivamente Schopenhauer. L'analisi dei sentimenti morali va attuata mediante l'osservazione di ciò che è umano e non divino e va integrata alla conoscenza e sfata pregiudizi secolari. Soprattutto sfata il pregiudizio sulla libertà e quelli della colpa e della responsabilità da esso derivati. La conoscenza della storia di un delitto, delle sue motivazioni psicologiche e sociali, dimostra che il suo artefice il più delle volte è stato costretto ad agire come ha agito, quindi punendolo puniremmo l'eterna necessità. L'analisi storica dei sentimenti religiosi è altrettanto dissacrante di quella sulle altre idee tradizionali: la religione è una abitudine barbara che mira ad avvilire l'uomo.
Nietzsche applica la sua prospettiva critica anche alla vita sociale: donna, matrimonio, moda, ecc. e alla nuova cultura. Dall'indagine sull'origine antropologico-psicologica e giuridico-politica dei comportamenti morali che troviamo in questi volumi, se ne ricava che la morale contribuisce, costringendo l'uomo a vergognarsi dei suoi istinti e a ricacciarli nel profondo, allo sviluppo di una civiltà fondata sul conflitto intrapersonale ed interpersonale e sulla menzogna personale e collettiva, e perciò di una società malata alle radici.

sabato 8 dicembre 2012

"L'irrazionalità di una cosa non è un argomento contro la sua esistenza anzi ne è una condizione."

La condizione per poter realizzare qualcosa di nuovo deve provenire da un pensiero fuori dalla "norma", qualcosa di assolutamente inconcepibile ai più.

Concordo con quello che afferma Nietzsche difatti tutte le grandi scoperte inizialmente venivano considerate come il frutto di pensieri deliranti di pazzi; gli scienziati sono quasi sempre stati considerati degli "smidollati" (es. Galileo oppure Einstein). 

L'amore viene solitamente considerato qualcosa di irrazionale. Eppure l'amore esiste no? Perciò l'rrazionalità dell'amore non è un argomento contro la sua esistenza, anzi è una condizione dell'amore stesso perché senza di essa probabilmente l'amore non esisterebbe.

giovedì 6 dicembre 2012

Nietzsche - Diventa ciò che sei

http://www.youtube.com/watch?v=FYtArM4HWXE

“In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della storia del mondo: ma tutto durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Quando tutto sarà finito, non sarà avvenuto nulla di notevole”.

Nietzsche